2.2 Nuovi ammortizzatori sociali. Semplificazione e ampliamento
11.11.2009 16:33
Il sistema degli ammortizzatori sociali sviluppato in Italia, formalmente, non si discosta dai modelli assicurativi adottati negli altri grandi paesi europei, ma appare molto meno finalizzato al rapido reinserimento professionale dei disoccupati.
Gli ammortizzatori sociali italiani, come altre le esperienze continentali, rientrano, infatti, in quel più ampio sistema di interventi di politiche del lavoro cosiddette “passive”, orientate principalmente al sostegno del reddito del lavoratore nelle fasi di non lavoro. Come è noto, tuttavia, nella maggior parte dei paesi europei le diverse forme di indennità presentano due tratti caratteristici:
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sono strettamente collegate a misure di politica attiva - ossia a servizi di orientamento, formazione e collocamento - funzionali a ridurre al minimo il tempo di non lavoro (e quindi di percezione delle indennità), aumentando l’occupabilità del lavoratore;
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sono rivolte a una platea ampia di disoccupati, che in alcuni paesi include anche i lavoratori “non standard” e gli inoccupati e supera l’80% delle persone in cerca di lavoro.
Si tratta di due caratteristiche “chiave”, che ne qualificano e ne rendono più efficace la funzione. La capacità di coniugare la domanda di flessibilità che viene dal mercato con la sicurezza necessaria a ridurre i rischi sociali a essa collegati, dipende, infatti, dal grado di integrazione tra strumenti di natura attiva e passiva e dalla universalità degli istituti stessi. La maggiore accessibilità è sostenibile, infatti, se è garantita la rapida fuoriuscita dal bacino della disoccupazione (cioè l’occupabilità), esito che dipende dalla qualità dei servizi e delle politiche di formazione adottati.
Il sistema di ammortizzatori adottato in Italia, in questo senso, si discosta significativamente da tale modello. Il grado di integrazione tra la componente passiva e le politiche attive è bassissimo e solo di recente, con l’articolo 19 della Legge 2/09, il collegamento tra le due componenti si è fatto più stringente. L’ingresso nella Cassa integrazione straordinaria o nella mobilità, per non parlare dei lavori socialmente utili, ha significato per molti l’uscita definitiva dal mercato del lavoro e per alcuni l’ingresso nell’area del lavoro irregolare. Se la cassa integrazione ordinaria costituisce uno strumento di “ammortizzazione temporanea” ancora molto utile (si pensi all’attuale fase congiunturale), per le altre misure di sostegno al reddito prevale la componente assistenziale, poiché connessioni con gli interventi di politica attiva e con i servizi sono sporadiche e, comunque, in molte realtà regionali ancora tutte da costruire.
La natura assistenziale fa sì che la platea dei beneficiari non possa crescere eccessivamente e, di conseguenza, non c’è da stupirsi che solo il 31% delle persone in cerca di lavoro - una quota decisamente inferiore alla media europea - percepisca sostegni al reddito.
Né sul piano dell’integrazione con le politiche attive né su quello dei livelli di copertura della platea potenziale, quindi, gli ammortizzatori sociali italiani si ispirano alle esperienze di quei paesi europei che meglio hanno saputo finalizzare i sostegni al reddito alla occupabilità, proprio per rispondere alle esigenze di un moderno mercato del lavoro.
Ovviamente tale lenta modernizzazione degli istituti di tutela del reddito di chi cerca lavoro è riconducibile a ragioni storiche ed alla struttura duale del mercato del lavoro italiano. La sclerotizzazione del modello “assistenziale” e la mancanza di opportunità di lavoro, soprattutto nelle regioni del Mezzogiorno, rendono decisamente difficile l’ampliamento della platea dei beneficiari ed ovviamente il principio derogatorio ha generato interessi corporativi e forti resistenze nei confronti degli strumenti di attivazione, cioè verso le necessarie limitazioni temporali dei sostegni al reddito e la partecipazione dei lavoratori a programmi di politica attiva.
A questo si aggiunge un ulteriore ritardo, legato essenzialmente allo sviluppo di un moderno sistema informativo del lavoro. L’integrazione tra politiche attive e passive, infatti, si dovrebbe realizzare grazie ad un efficiente sistema informativo, che consenta di personalizzare le politiche e di monitorare gli effetti nel tempo delle misure adottate.
In tutti i paesi che hanno sviluppato modelli di flexsecurity (dal Regno Unito ai Paesi Bassi ai paesi del Nord Europa), che appunto sostengono il lavoratore nelle fasi di non occupazione attraverso forme di sostegno al reddito condizionate alla partecipazione a programmi di politica attiva, sono stati realizzati sistemi informativi che consentono, da un lato, di seguire i processi di transizione dei lavoratori che percepiscono le indennità, e quindi di valutare l’efficacia delle politiche di attivazione (soprattutto dei servizi di placement e quelli di formazione), dall’altro, di ridurre le asimmetrie informative del mercato, aumentando, grazie alle tecnologie della rete, la circolazione delle informazioni sulle vacancies e sulle risorse umane disponibili, avvicinando domanda ed offerta di lavoro. La creazione di un sistema informativo del lavoro efficiente e trasparente costituisce, quindi, una precondizione per migliorare l’efficacia delle politiche del lavoro, sia per quanto attiene alla componente passiva (gli ammortizzatori), sia per quanto concerne le misure attive (servizi di collocamento e formazione).
Anche da questo punto di vista il sistema italiano sconta ancora numerosi ritardi. Sebbene recentemente, con le comunicazioni obbligatorie on line (ossia con la possibilità per le imprese di comunicare l’avvio o la cessazione di un rapporto di lavoro via internet), i flussi informativi siano ormai stati completati, manca, sia a livello nazionale che a livello regionale, un sistema informativo efficiente, capace di integrare le informazioni sulle caratteristiche socio-professionali dei lavoratori con quelle provenienti dai flussi di ingresso e in uscita dal mercato e di utilizzare tali informazioni per personalizzare le politiche di intervento. L’assenza di un efficiente sistema informativo rappresenta, quindi, un ostacolo all’evoluzione delle politiche di welfare to work e rende difficile un riordino degli ammortizzatori sociali.
È utile, infine, sottolineare la relazione che lega le disfunzioni del sistema italiano di sostegni al reddito per le persone in cerca di lavoro con la diffusa percezione della precarietà. In Italia, come è noto, la percentuale di lavoratori dipendenti con un contratto a tempo determinato o non standard non supera il 13%, una quota in forte crescita ma ancora ampiamente in linea con la media europea e decisamente inferiore a quella registrata in Francia, in Germania, nel Regno Unito ed in Spagna. Tuttavia, come mostra la Quarta indagine sulle condizioni di vita e di lavoro in Europa, condotta dalla Fondazione di Dublino6, la percezione della precarietà professionale in Italia7 è molto maggiore che negli altri paesi. Agiscono su questo malessere diffuso, da parte delle famiglie italiane, numerosi fattori. Tra questi vanno ricordati gli squilibri strutturali del mercato del lavoro tra Nord e Sud del paese, ma anche la natura molecolare del sistema produttivo - costituito in larga misura dalle medie e piccole imprese, con un numero di dipendenti inferiore a 15, soglia sotto la quale la mobilità dei lavoratori è massima - che non favorisce certo la stabilità professionale, soprattutto per le fasce più deboli del mercato. Inoltre, alla fisiologica quota di lavoratori “flessibili” va aggiunta quella dei lavoratori irregolari, estendendo significativamente l’area del disagio.
In questo contesto la diffidenza e la sfiducia verso il mercato del lavoro e le sue regole da parte di molte famiglie italiane è comprensibile e la mancanza di ammortizzatori sociali universali, che tutelino non solo il reddito dei disoccupati ma anche la possibilità di essere efficacemente reinseriti nel mercato del lavoro, amplifica la percezione delle precarietà. In paesi come il Regno Unito, la Danimarca ed i Paesi Bassi, dove la flessibilità del mercato del lavoro è decisamente più alta, la percezione della precarietà è molto inferiore e maggiore è l’ottimismo verso il futuro professionale. Evidentemente la consapevolezza di disporre di adeguate tutele e di servizi efficienti nelle fasi di non lavoro incide sulla percezione della precarietà, riducendo significativamente i livelli di disagio e disorientamento.
L’assenza di un moderno sistema di ammortizzatori sociali contribuisce, quindi, ad amplificare la percezione della precarietà, facendola apparire molto più diffusa e grave di quello che in realtà è. Senza contare che sono proprio le fasce più deboli oggi ad essere escluse dagli ammortizzatori: giovani lavoratori non standard, donne disoccupate di lunga durata o inattive che intendono rientrare nel mercato del lavoro, neolaureati, lavoratori dei servizi, soggetti questi spesso abbandonati a se stessi.
Si discute da tempo in Italia di una riforma che riordini in profondità gli istituiti di sostegno al reddito dei disoccupati, ormai non più in grado di garantire livelli di sicurezza sociale adeguati ed incapaci di stimolare il rientro attivo al lavoro. Nel corso degli anni sono stati presentati numerosi disegni di legge per riformare gli istituti esistenti, ma, nonostante sia la riforma Treu che la riforma Biagi abbiano richiamato l’urgenza di riordinare il sistema degli ammortizzatori sociali, il processo normativo non si è concluso.
Attualmente è in discussione la possibilità che anche i lavoratori non standard beneficino di qualche forma di sostegno nelle fasi di disoccupazione. Si pensa ad un sistema universale, ma anche alla possibilità di mantenere forme di assicurazione integrativa declinabili nell’ambito della contrattazione settoriale. Tuttavia anche tale opzione, per essere sostenibile, dovrà collocarsi entro un processo di ridefinizione complessiva del modello di funzionamento degli ammortizzatori sociali e non potrà prescindere:
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dall’integrazione con il sistema delle politiche attive e dei servizi per il lavoro, anche attraverso la definizione di regole per l’erogazione dei sostegni (ad esempio la partecipazione a programmi di reinserimento, riqualificazione, ecc.);
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dallo sviluppo di un sistema di servizi per il lavoro e di politiche che riducano i tempi di inattività e di reinserimento al lavoro e garantiscano prestazioni minime su tutto il territorio nazionale;
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dalla definitiva valorizzazione del patrimonio informativo disponibile per monitorare gli effetti delle politiche e personalizzare gli interventi.
Sebbene la materia degli ammortizzatori sociali sia di competenza dello Stato e quella dei servizi e delle politiche per il lavoro sia riservata alle Regioni, è del tutto evidente che una riforma incisiva difficilmente potrà essere realizzata prescindendo da una forte cooperazione interistituzionale che, nonostante le due riforme del mercato del lavoro, risulta ancora assai fragile.
Nel corso degli anni e dei mesi passati, mentre difficoltà enormi si incontravano a definire una riforma di ristrutturazione complessiva degli interventi a sostegno di quanti perdevano il lavoro o faticavano trovarlo, abbiamo assistito alla proliferazione di una molteplicità di interventi normativi che, stratificatisi nel corso del tempo, hanno prodotto un apparato alquanto eterogeneo, complesso e confuso di tutela e protezione.
Così sempre di più oggi si avverte il bisogno di “sintesi”, così da ricondurre ad unità i diversi strumenti, aumentando l’universalità degli stessi e inibendo la prassi “derogatoria” dalla norma vigente.
Tra i vari tentativi fatti si possono ricordare, in particolare, lo Schema di protocollo sulla politica dei redditi del 1993 e l’Accordo per il lavoro del 1996, mentre, sul versante parlamentare, vanno ricordati i risultati della Commissione per l’analisi delle compatibilità macroeconomiche della spesa sociale (cosiddetto Commissione Onori) nel corso della XIII legislatura. Nella Relazione finale del 28 febbraio 1997 si fa riferimento ad un nuovo sistema, strutturato su tre livelli:
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l’Integrazione temporanea del reddito quale “primo livello” di protezione, pensato per dare maggiore stabilità ai rapporti contrattuali, in presenza di una normale variabilità del quadro economico dovuta a problemi di mercato o a riorganizzazioni aziendali. Lo schema proposto era di tipo assicurativo, simile alla CIGO, con finanziamento contributivo proporzionale al salario;
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il Trattamento ordinario di disoccupazione quale “secondo livello”, necessario per ricondurre coerentemente a unità i diversi dispositivi di indennità, declinandone l’operatività in una direzione decisamente più “attiva”, così da agevolare il reinserimento occupazionale. Funzionale a ciò sarebbe stato, inoltre, il coinvolgimento dei servizi per l’impiego nella gestione ed erogazione dei dispositivi;
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gli Interventi di tipo assistenziale quale “terzo livello”, funzionale all’introduzione di uno strumento che rispondesse ai compiti afferenti alla sfera dell’assistenza sociale tout court.
Successivamente, i diversi disegni di legge che si sono susseguiti si sono ispirati a tale articolazione concettuale. Le finalità che si sarebbero dovute conseguire erano, dunque, da individuarsi nella maggiore efficienza della promozione dell’incontro tra domanda e offerta di lavoro mediante l’integrazione con i sistemi di gestione ed erogazione degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive e nell’introduzione di maggiore equità per la valorizzazione del modello universalistico. Oltre ad ostacoli di carattere culturale e a volte clientelare una delle maggiori difficoltà riscontrate dai vari tentativi di riforma riguarda i costi necessari a completare il processo di riforma, difficili da affrontare, soprattutto in questa fase congiunturale e soprattutto senza un quadro condiviso degli interventi necessari.
Pur consapevoli di tutte queste difficoltà e soprattutto dei vincoli economici non si può immaginare di riformare il mercato del lavoro senza prevedere una riforma degli ammortizzatori sociali che, per come sono strutturati oggi rappresentano un ulteriore elemento di disuguaglianza fra i lavoratori e, soprattutto, continuano a penalizzare i lavoratori più deboli.
In Italia, infatti è sempre più avvertita, a seguito della crisi, ma soprattutto dei tanti rapporti di lavoro temporanei, l’esigenza di costruire uno schema universale di sussidio di disoccupazione involontaria. Pur senza considerare i collaboratori cui oggi è stata solo riconosciuta un’indennità una tantum in caso di conclusione del lavoro, occorre considerare che, prima della Legge.2/2009 che ha introdotto un’indennità per gli apprendisti sospesi o licenziati e una disoccupazione ordinaria e con requisisti ridotti per i lavoratori sospesi, per effetto dell’incrocio fra requisiti assicurativi e requisiti contributivi8, circa il 25% dei tempi indeterminati part-time, il 90% degli apprendisti, il 60% dei tempi determinati non riescono ad accedere a nessuno sussidio di sostegno al reddito, a conclusione del rapporto di lavoro.
In quest’ottica pare importante andare verso un’indennità di disoccupazione generalizzata rivolta a tutti i lavoratori (subordinati, parasubordinati, autonomi), che sarebbero ovviamente soggetti alla contribuzione obbligatoria all’assicurazione contro la disoccupazione. Inoltre, poi, per permettere l’accesso a tale indennità ai lavoratori più instabili si renderebbe necessario eliminare il requisito assicurativo, ma conservando ad esempio il requisito contributivo di 52 settimane (12 mesi) nei due anni precedenti la cessazione del rapporto di lavoro. Nell’ottica dell’estensione del sussidio di disoccupazione a tutti i lavoratori e a tutti i settori si può prevedere anche l’abolizione dell’indennità di mobilità. Ovviamente tale sussidio andrebbe poi collegato con l’obbligo alla partecipazione attiva a percorsi di reinserimento e riqualificazione.
Un ruolo chiave a riguardo andrebbe affidato ai servizi per il lavoro pubblici e privati9 (che troverebbero finalmente una missione chiara), come avviene in molti paesi europei, dove la gestione dei sussidi è funzionale allo sviluppo di politiche attive e di ricollocazione professionale.
Anche perché nessuna riforma degli ammortizzatori sociali, per quanto razionale, può risultare sostenibile senza una integrazione sistematica tra politiche attive e passive, senza la quale ogni ipotesi rischierebbe di trasformarsi in una misura assistenziale e in un incentivo a svolgere il lavoro nero.
Nell’ottica di creare un sistema di tutele per i lavoratori di tutte le dimensioni di impresa e tipologie lavorative, ispirato ai principi di inclusione sociale e di promozione di buona occupazione, soprattutto a fronte dell’attuale crisi, ma della costante necessità di riorganizzazione delle imprese al sostegno per i lavoratori che perdono il lavoro si rende necessario affiancare l’estensione della Cassa Integrazione Guadagni a tutti i settori produttivi per ovviare a periodi di difficoltà temporanea delle imprese. Anche in questo caso si potrebbe prevedere che le risorse di tale misura possano derivare in parte dall’assicurazione obbligatoria e in parte da fondi di origine contrattuale gestiti anche questi, come i percorsi di inserimento lavorativo, dagli enti bilaterali.
Un tema sempre spinoso quando si parla riforma degli ammortizzatori sociali riguarda i costi che le diverse riforme avrebbero. Le proposte qui brevemente accennate avrebbero un indubbio costo che si può quantificare fra gli 8 e i 18 milioni di Euro e con un aumento della spesa per gli ammortizzatori sociali dal 50% ad oltre il 100%. Il tentativo in realtà che vorremmo fare non è tanto di individuare la soluzione migliore dal punto di vista tecnico e più sostenibile dal punto di vista economico, quanto quello di indicare alcune linee tese a semplificare (fine del lavoro e crisi aziendali temporanee) e ad ampliare la platea dei soggetti che avrebbero diritto al sostegno del reddito (tutti i lavoratori a prescindere dalla tipologia contrattuale), suddividendo i costi fra lavoratori, datori di lavoro e fiscalità generale, chiedendo a tutti una responsabilità per garantire rapidi e certi percorsi di reinserimento del lavoro e non interventi di carattere meramente assistenziale, nella consapevolezza che oggi la mancata riforma non è senza costi, ma semplicemente quei costi sono riversati interamente sulle famiglie e sui singoli.
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